Orologi & Design: Taglie forti per i mercati forti

Guest post di Marco Strazzi

“In orologeria non c’è nulla di nuovo, tutto è già stato fatto”. Ecco un luogo comune che gli Anni 2000 hanno spazzato via. Quella a cui si assiste da un paio di lustri è un’autentica rivoluzione del design. Chi si è avvicinato agli orologi in tempi recenti ed è interessato solo alla produzione contemporanea non ha termini di paragone sufficienti. Ma gli appassionati che seguono questo mondo da almeno una dozzina d’anni e che, magari, sono cultori del vintage, hanno l’impressione di guardare attraverso una lente d’ingrandimento incollata sulla cornea.

Mai nella storia dell’orologio da polso – gli ultimi 110 anni, più o meno – si era vista un’adesione così generalizzata a un principio estetico unico: l’extralarge. Vent’anni fa il diametro medio degli orologi da uomo si aggirava sui 36 mm e i 40 erano un limite quasi invalicabile; ora la media è balzata verso i 43 e non sono rari, nei cataloghi, i giganti che sfiorano i 50. Gli spessori hanno tenuto il passo: quasi spariti gli “under 10” (mm), che una volta erano la maggioranza, i 15 si superano con frequenza. Una delle conseguenze più singolari del fenomeno è che, contrariamente a quanto accadeva in passato, le immagini pubblicitarie tendono a evitare di mostrare gli orologi al polso di qualcuno: a quanto pare, anche i responsabili del marketing si rendono conto che certi cipolloni sono difficili da portare se non si possiede l’avambraccio di un peso massimo.

Ma cosa c’è dietro il trionfo degli Hummer con le lancette? Perché gli orologi si sono “gonfiati” del 20/25% in così poco tempo? Credo che la risposta stia anzitutto in una situazione di mercato profondamente mutata. Nel 2001, l’industria orologiera svizzera deteneva il 50% del fatturato mondiale del settore, ma una percentuale superiore all’80% nelle gamme medio-alta e alta. Gli Stati Uniti erano il suo mercato principale, come sempre nei cento anni precedenti, seguiti da Hong Kong e dal Giappone; poi era l’Europa a farla da padrona, con l’Italia al quarto posto e altri quattro paesi fra i top 10, per un totale continentale del 38,8% contro il 34,7% di Asia e Oceania. Nel 2010, l’Asia è diventata “azionista di maggioranza”, nel senso che assorbe il 53% delle esportazioni svizzere grazie all’ulteriore crescita di Hong Kong (nuovo numero 1) e all’avanzata impetuosa della Cina. Le cifre americane sono precipitate (un terzo in meno) e l’Europa arranca con il 31%, ma il suo risultato sarebbe ancora più modesto se non lo “drogasse” il boom della Francia: dove a comprare gli orologi svizzeri sono principalmente i turisti asiatici, non gli indigeni.

La Svizzera, dunque, esporta oltre la metà dei suoi orologi in Paesi emergenti, dove l’orologio di lusso viene percepito spesso come uno status symbol da esibire, e sempre meno sui mercati tradizionali, dove prevalgono l’interesse per la tecnica (Germania), l’estetica (Italia) o entrambi gli aspetti (Stati Uniti). Mi sembra logico che le scelte dei produttori ne tengano conto. A diventare “esagerate”, così, non sono solo le casse, ma anche le complicazioni meccaniche, sempre più sofisticate, e i quadranti, dove trovano posto decorazioni che a volte sono esplicite come una dichiarazione d’intenti. Basti pensare al modello presentato da Piaget nel gennaio scorso: il microrotore e la gabbia del tourbillon formano il numero 8, fortunato in molti Paesi asiatici.

Le Case hanno un altro motivo valido per cavalcare i trend attuali. Si sa da sempre che la robustezza di un orologio aumenta con il volume. Il problema, in passato, era che la maggior parte dei compratori prediligeva modelli di forma (Anni 20 e 30) o piccoli e sottili (Anni 50, 60 e 80), ai quali non era possibile garantire una protezione ottimale contro l’umidità e gli urti. Ora che vanno di moda gli Hummer il problema è in buona parte risolto, anche se non mancano i nuovi ricchi che si tuffano in piscina con il loro tourbillon da 200.000 euro, convinti che sia subacqueo perché misura 46 mm e pesa 300 grammi. Movimenti meglio protetti, dunque, ma le loro dimensioni non sono cresciute come quelle delle casse che li ospitano. Questo spiega certi quadranti “strabici”, con i contatori ammassati nella zona centrale perché i perni delle lancette non possono essere spostati dalla loro sede naturale.

Viste le premesse, un’inversione di tendenza a breve termine è improbabile. Così come appaiono improbabili altre ipotesi formulate dagli addetti ai lavori per spiegare la tendenza al sovradimensionamento. La prima chiama in causa le donne, che – portando da tempo orologi “da uomo” – avrebbero costretto i mariti/compagni ad adeguarsi. Fosse vero, sarebbe un colpo di scena senza precedenti: l’orologio – inespugnabile fortino dei maschi, nonché unico gioiello che gli è concesso – si piegherebbe docilmente ai capricci delle nostre affascinanti compagne. Francamente ci credo poco. La seconda ricorre all’evoluzione: gli orologi non farebbero che adeguarsi all’aumento della statura e della corporatura medie. Tesi incompatibile con le statistiche evocate in precedenza perché non risulta che il cliente asiatico del 2010 sia più robusto dell’europeo/americano del 1990. L’evoluzione c’entra, come no. Ma a cambiare sono la mentalità e la residenza dei consumatori, non la circonferenza del polso.

Marco Strazzi è giornalista e storico dell’orologeria, autore di “Lancette & C.” e di “Rolex dalla A alla Z”.

Leave a Comment